(Questo è un cous cous tiepido al pomodoro con noci, tofu affumicato ed erba cipollina e sì, l’ho cucinato io.)
Non mi è mai piaciuto cucinare, e non credo sia una novità leggere questa frase scritta da me.
Ci ho provato più volte, ogni tot ho provato a dare una chance alla cucina e i risultati sono stati sempre assolutamente fallimentari. Durante il lockdown, mentre chiunque sfornava pagnotte grandi quanto il mio monolocale, io ricevevo Glovo da amici e amiche con dei piatti cucinati da loro perché avevano paura che sarei morta di stenti. Sono effettivamente stata una delle poche persone in grado di dimagrire durante quel periodo, ho bruciato persino il riso in bianco e rischiato di far saltare in aria tutto il palazzo milanese nel quale abitavo perché avevo dimenticato gli asparagi nel forno, che si sono talmente carbonizzati da sembrare, alla fine del loro percorso di cottura, le bacchette dei protagonisti di Harry Potter.
L’atto del cucinare, per me, è sempre stata una sofferenza: quando si avvicina l’ora di pranzo o di cena, inizio a innervosirmi. Anche solo il pensiero di capire cosa assemblare e come per nutrirmi è un qualcosa che mi rovina le giornate.
Non provengo da una famiglia con chissà quale tradizione culinaria alle spalle, non ho la sicurezza che questo sia uno dei motivi delle mie scarse capacità, ma se è vero che siamo quello che mangiamo e anche quello che guardiamo crescendo, io non ho mai vissuto quei momenti che vengono poi tramandati di generazione in generazione in cui ti mettono in piedi sulla seggiola a osservare la persona che cucina.
La mia nonna materna era una cuoca strepitosa, capace di sfornare quei piatti oltre il livello di unto che un essere umano può sopportare e sempre con quel qualcosa che non riesci a riconoscere ma che rende il piatto strabiliante, ma è morta vent’anni fa, io la ricordo purtroppo molto poco e non ha lasciato le sue spaziali ricette scritte da nessuna parte, non sono state tramandate a noi generazioni future in nessun modo. La donna che mi ha messa al mondo ha sempre avuto un rapporto conflittuale col cibo e con il concetto in generale di accudimento e maternità, quindi non ricordo tavole imbandite, pranzi domenicali o profumo di soffritto. E non ho molti altri ricordi familiari legati al cibo nei quali scavare: solo la mia nonna paterna che frigge i “friggetti” (il modo romanesco per chiamare le frittelle di verdure) per la vigilia di Natale e il mio stupore quando ho scoperto che mi piacciono i broccoli, solo che evidentemente non ero mai stata in grado di esaltare il loro sapore; il mio nonno paterno che taglia a metà i pomodori pachino e li sistema perfettamente in ordine sulla teglia con un dito di olio per cuocerli al forno e poi condirci gli spaghetti; la torta cioccolato e ricotta della mia nonna materna con i tocchi enormi di cioccolato fondente che restavano croccanti al punto giusto e il profumo di ciambellone nel quale lei metteva sempre del succo di limone, anche in quello per metà al cacao, e anche se mi ritrovavo i semi del limone in bocca comunque era un prezzo che non mi dispiaceva pagare. Le altre (poche) tradizioni culinarie riguardano piatti che non ho mai neanche assaggiato e che da 22 anni non fanno parte della mia vita da persona vegetariana: il pollo con i peperoni, l’abbacchio alla scottadito, le patate al forno imbevute di grasso animale. Thanks but no thanks.
Sono quindi cresciuta con l’idea che il cibo non potesse minimamente essere sinonimo di comfort, di convivialità e di benessere, ma un semplice nutrimento quotidiano necessario alla sopravvivenza dell’essere umano.
Negli ultimi due anni, però, ho dovuto per forza modificare le parole che utilizzavo per descrivere il mio rapporto con la cucina: per anni ho detto “non so cucinare” e poi, invece, quando mi sono ritrovata a farlo, ho capito che non è e non è mai stata una questione di capacità (non sto dicendo di essere una chef, semplicemente nessuno si è mai sentito male dopo aver mangiato qualcosa che ho cucinato e nel piatto non sono rimaste neanche le briciole) ma di voglia e di passione.
Devo purtroppo comunicarvi che, a oggi, continuano drammaticamente a mancarmi entrambe. Ma qualcosina sta cambiando.
(Una delle poche citazioni che sopporto di quella scassacazzo egocentrica di Carrie Bradshaw.)
Non mi piace cucinare perché è uno di quei gesti per i quali impiego tantissimo tempo e che poi però vede la fine troppo presto: spadello, mixo, sminuzzo, soffriggo, inforno e impasto per ore, a volte anche per una giornata intera, per poi vedere il mio duro lavoro svanire con un breve lavoro di masticazione in pochi minuti.
Se oggi riesco ad associare la parola “cibo” alla parola “comfort” è solo grazie a pochi piatti nei quali mi rifugio quando mi serve una carezza, ma sempre possibilmente cucinati da altre persone: le patate lesse con l’olio buono, il pan y tomate (che non potrei più mangiare perché, nella lunga lista delle mie allergie e intolleranze, da due anni, è stato inserito il pomodoro crudo, ma a volte nel mordo una fetta e abbraccio la consapevolezza di finire sul cesso e anche sticazzi) , il purè, la pasta burro e parmigiano mantecata talmente bene da diventare cremosissima, il riso in bianco freddo con i ceci lessi, il tonno vegano e la maionese.
Insomma, ma com’è che mi sono messa a cucinare? Un po’ è stato sicuramente l’avanzare dell’età, un po’ la mancanza di soldi di questo 2024 che mi ha messa di fronte al fatto che vivo sempre (e da sempre) al di sopra delle mie possibilità mangiando troppo fuori o comprando troppi piatti pronti come una Carrie Bradshaw de periferia, un po’ il troppo tempo libero, ma alla fine oh, non so come altro dirlo: ho cucinato. E pure tanto.
Continuo però a non trovare particolare piacere nel cucinare per me stessa, ma è quando cucino per le altre persone che non riesco più a fermarmi.
(Un frame della serie tv “Le Fate Ignoranti.)
Mi piacciono i film di Özpetek, ma li incolpo di avermi fatto credere che a 35 anni mi sarei potuta permettere di vivere in un attico nel pieno centro di Trastevere con un terrazzo di più di 70 mq sul quale invitare ogni domenica gli amici e le amiche per mangiare la lasagna vegana e bere 2 bottiglie di vino rosé a testa, con la musica di Nada e di Mina che esce dalle casse e Ə commensali che, nell’attesa del dolce, si alzano per ballare a piedi nudi. Negli ultimi due anni ho effettivamente avuto un terrazzo, grande, troppo grande per me da sola e al quale era collegato un monolocale troppo piccolo persino per me da sola, ed è stata la prima volta che ho avuto uno spazio esterno tutto mio grande abbastanza per poterci addirittura mettere un tavolo al quale potessero sedersi 8 persone. Non voglio lamentarmi di aver avuto come coinquilino un terrazzo di 30 mq, qualcuno lo chiamava “il più invidiato di Bologna”, ma diciamo che la sua funzionalità non è mai stata top. A parte il fatto che fai fatica a goderti un grande terrazzo quando la tua casa ha le stesse dimensioni, dove non sai più dove mettere i libri e se apri il letto non riesci ad arrivare al bagno, soprattutto non era un terrazzo all’ultimo piano, e quindi gli sguardi delle persone dei palazzi intorno e quelli di chi mi spiava dentro casa mi hanno fatto rodere parecchio il culo. Non l’ho sfruttato quanto avrei dovuto, e so che ne sentirò terribilmente la mancanza quando realizzerò che davvero quella non è più casa mia, perché è risaputo: impariamo ad apprezzare le cose che abbiamo solo quando non le abbiamo più.
In quei due anni e poco più nella piccola casa col grande terrazzo, dove sono tornata ad avere un forno dopo i due anni torinesi dove già avere dei fornelli funzionanti era un qualcosa da segnare sul calendario, ho scoperto che mi piace apparecchiare la tavola nel modo più carino possibile, a mio gusto, che non segue il galateo e nemmeno quella scassacazzo di Cortesie per gli ospiti ma io a casa mia faccio come dico io. Prima non potevo saperlo, perché non ho mai avuto lo spazio necessario per un tavolo. Mi piace il colore, più sulla tavola e in casa che addosso a me, e i fiori freschi, e i piatti con i disegni. Mi piace il profumo di spezie che si mischia a quello dell’olio essenziale di gelsomino che metto a litri del diffusore. Mi piace vedere le mani che si arrampicano verso il piatto posizionato al centro della tavola, la cera delle candele che crea forme assurde quando si scioglie, le macchie sulla tovaglia che mi ricordano che la giornata è stata memorabile.
Non mi piace l’utilizzo delle tovaglie se il tavolo è di legno e i bicchieri tutti diversi non mi disturbano ma mi affascinano. Mi piace il calore del restare intorno alla tavola per ore, continuare a stuzzicare quello che resta anche se è diventato freddo, portare la moka direttamente al tavolo, tirare fuori gli amari dal freezer, condire le fragole col gelato alla crema e la panna fresca e guarnirle con una fogliolina di menta.
Mi piace un bel piatto unico di ispirazione mediorientale (che è la mia cucina preferita) al centro della tavola: lo scorso compleanno sono passata dalle pin salvate su Pinterest alla realtà, ho addirittura cucinato dei falafel, proprio per assemblare il tutto come le foto che avevo osservato per ore. Ho comprato non so quante ciotole, di ogni dimensione, tutte con lo stesso motivo ma con colori diversi che mi portano con la mente in Marocco, che adesso sono tutte stipate in un magazzino e mi mancano. Mi affascina l’idea del “para compartir”: mangiare dalla stessa grande ciotola posizionata al centro della tavola, portare direttamente la teglia e lasciare che ogni persona decida la quantità che vuole nel piatto, mettere tutto insieme sulla tavola in un’esplosione di colori e sapere e mettere diverse pietanze insieme nel piatto e far fare loro amicizia.
Se mi ami, portami in un ristorante Palestinese.


(Foto: Pinterest)
Adoro mangiare con le mani, mangerei con le mani anche la minestrina se fosse possibile (ma la pizza no, la pizza la mangio con le posate, ho le mie fisse, lasciatemi stare.) Adoro quei cibi che posso mettere in bocca in un sol boccone, e se la porzione è troppo grande per farlo mi piace spezzettarli con le dita, con le mani grondanti di salse, e adoro anche fare io direttamente le salse: hummus, babaganoush, tzaziki, maionese alla paprika. Ho scoperto che il sapore del limone, che di solito preferisco tenere molto lontano dalle papille gustative, si sposa benissimo con il tonno (vegano), col pistacchio e con il cous cous con le zucchine crude tagliate alla julienne, la feta e la menta.
(Il mio compleanno 2023)
Mi piace triggerare i patrioti con la bandiera italiana di fianco al nome del nickname di Instagram mettendo diverse pietanze nello stesso piatto.
Mi piace l’odore delle pizzette rosse di sfoglia nel forno con la mozzarella che inizia a sfrigolare se si scioglie e tocca la teglia incandescente, quell’odore di panificio alle 6 del mattino a Centocelle dopo che ero stata a ballare. Mi è piaciuto cucinarle invece di comprarle già fatte e realizzare che quel profumo proveniva da una sequenza di miei gesti, mettere su il sugo, guardarlo diventare più scuro, spezzare la mozzarella con le mani, cercare di capire quale sia la quantità giusta per non farla strabordare dai mini cornicioni di pasta sfoglia.
La lasagna col ragù vegano mi viene da 10 e lode: chi l’ha mangiata mi ha detto che non si sente la differenza con quella normale. Con quello stesso ragù ci faccio anche le tagliatelle, le pappardelle, i paccheri - che sono il mio tipo di pasta preferito. Tengo sul fuoco il ragù veg quasi quanto quello vero e ci metto non solo la carne (finta) macinata ma ci sminuzzo dentro anche delle fake salsicce, come tradizione emiliana vuole. Ci aggiungo anche un pizzico di paprika affumicata. Mi piace con i pezzettini piccoli, sminuzzati, e non grandi. Lo sfumo col vino rosso per dargli quel sapore di casa.


(Le tagliatelle col fake ragù e il mio Natale 2022)
Trovo gioia nel descrivere a chi si siede alla mia tavola che cosa ho cucinato e come: che ho aggiunto l’aglio e il finocchietto alle patate al forno perché è così che le cucinava mia nonna, che non sapevo cosa fosse la tahina ma che adesso è la mia migliore amica, che non serve comprare i burger industriali se hai un mini pimer nel quale puoi frullare qualunque cosa, che il cavolfiore, se lo schiacci e poi lo grigli, diventa praticamente una bistecca.
Insomma: io non lo sapevo di essere questa persona.
Pensavo che gli aspetti che mi sarebbero mancati di più di questo periodo di giri di divani delle amiche a Milano (che spero duri il meno possibile, sì, cerco casa a Milano, ma questa è un’altra storia che approfondirò nei prossimi giorni) sarebbero stati:
la solitudine, alla quale sono ormai abituata e che mi permette di mettere la musica a volumi al limite dell’illegale e il registrare note audio lunghissime senza disturbare nessuno;
i miei libri esposti ber bene e in ordine;
i vestiti appesi in un armadio e non appallottolati dentro uno o più zaini,
e invece la mancanza più forte, da subito, così, che cresce sempre più è un tavolo da apparecchiare e delle persone sedute intorno. E sono, soprattutto, le mie ciotoline colorate che arredano la tavola, che accolgono diverse consistenze e diversi sapori.
Nell’anno in cui mi sono sentita più sola (anche se so di non esserlo il cervello quando non funziona ti fa vedere cose diverse da come sono nella realtà) ho cercato la compagnia spesso, e mi sono attaccata all’idea che se avessi dato alle persone qualcosa in più rispetto alla mia semplice presenza e alle mie lacrime miste a lamentele, loro sarebbero rimaste più volentieri. E allora ho passato, per il secondo anno di fila, tre giorni interi a cucinare nei giorni del mio compleanno: mi sono caricata sulle spalle buste pesantissime straboccanti di ceci precotti, pangrattato, passata di pomodoro, pane fresco per la bruschetta, sfoglie di lasagne, carote da infornare, patate da pelare.
Mi sono preparata il banana bread per la colazione e la merenda, provandolo in diverse varianti, dalle gocce di cioccolato alle noci al burro di arachidi.
Ho usato ogni centimetro quadrato del mio monolocale per poggiare teglie, padelle, mestoli, ho passato ore a smacchiare i vestiti e a togliermi la farina dei capelli.
Non mi permetto di definirmi una cultrice del cibo, quello credo che non lo sarò mai, ma mi piace leggere e ascoltare chi ne scrive e ne parla, anche da prima di questo mio guizzo. Guardo video di ricette per ore e i miei preferiti sono proprio quelli con le spiegazioni precise ma non del procedimento che tanto non sarei in grado di ricreare, ma della storia. Alcune persone hanno la capacità di trasformare ciò che per me è sempre stata semplice benzina per il mio corpo in poesia: vederle usare la manualità è come assistere a un balletto di danza. **




E così, rieccomi, a caramellare le verdure con la salsa di soia, a friggere le zucchine per gli spaghetti alla Nerano, a bilanciare l’interno di una piadina vegana con un ordine e una precisione che non ho mai usato nemmeno negli hobby che davvero mi hanno sempre fatta stare bene. A sperimentare per ore per arrivare alla crosticina perfetta per la pasta al forno.
Non so quando tornerò ad avere una cucina da sporcare, un tavolo da apparecchiare, le mie ciotoline da riempire. Non so quando mi sentirò di nuovo davvero a casa e potrò ricominciare a saturarla di odori culinari, se ci troverò dentro delle padelle decenti o se dovrò comprarne di nuove, e in tal caso non so quali siano le padelle giuste perché non ne ho mai comprata una.
So solo che fino a poco tempo fa, in casa mia, la cucina avrebbe anche potuto non esserci. Il forno era l’ennesimo spazio dove stipare gli oggetti che non entravano nel resto dello spazio a mia disposizione nei minuscoli appartamenti che ho abitato. I fornelli rimanevano spesso intonsi per giorni, e adesso, invece, mi ritrovo a farci caso, a ingrandire le foto per capire se ci sarebbe abbastanza spazio per poter preparare le lasagne senza dover poggiare le teglie sul letto, a sognare una casa con l’isola come se Martha Stewart si fosse, in una qualche seduta spiritica alla pizzaiola, appropriata del mio corpo.
Vorrei solo le mie ciotoline colorate, che tornasse il colore sulla tavola e nella mia vita, e raccontare alle persone sedute intorno alla mia tavola che sì, resto sempre una party goblin, ma senti un po’ come scrocchia ‘sto tofu.
** vi lascio dei profili che mi piacciono:
Arianna Galati (la trovate anche su Marie Claire)
e un libro da comprare se amate la cucina palestinese e volete conoscere la sua storia:
P.s: questa newsletter è gratuita e continuerà a esserlo per sempre, ma se ti piace l’idea di supportare il mio lavoro (non solo questo, che effettivamente esce quando me va, ma tutto il resto che faccio in luoghi dove non guadagno un euro manco se accendo un cero alla Madonna del Divino Amore) puoi sottoscrivere un abbonamento a pagamento!
Vabbè, ma il compleanno 2023 è top!
Comunque, a me piace cucinare (potresti dire: "Chi te l'ha chiesto?!?!?"), ma effettivamente questa tua frase mi ha fatto riflettere:
"Continuo però a non trovare particolare piacere nel cucinare per me stessa, ma è quando cucino per le altre persone che non riesco più a fermarmi."
Infatti credo che valga anche per me, mi piace cucinare (ripeto), ma ora che mi ci fai pensare solo se ci sono altri a tavola.
Ho sorriso tanto. Un piccolo disclaimer sulla presenza di foto che inducono ad aprire con violenza il frigo per l’acquolina in bocca, ecco io lo metterei. Brava.