Dicono che i lavori creativi verranno tutti spazzati via dall'AI. Io dico che moriranno tutti ancora prima, spazzati via dalla gente che non ci vuole pagare quanto meritiamo.
Urlo bestemmie e polemiche su internet da quasi 15 anni. Se ci penso, mi viene voglia di buttarmi direttamente in un bidone dell’umido.
Ci sono arrivata per caso, per noia, per egocentrismo, perché a scuola mi dicevano “sai scrivere bene”, perché me lo aveva consigliato la psicologa. Insisteva a dirmi di scrivere, perché io le avevo detto che era una delle mie attività preferite e secondo lei poteva funzionare come valvola di sfogo. Era il periodo in cui internet iniziava a entrare nelle nostre vite di adolescenti, questo mezzo così potente e così oscuro, capace di connetterci con persone dall’altra parte del mondo ma allo stesso tempo di spaventarci, come tutte le cose nuove che non conosci.
Prima che arrivasse la connessione internet a casa mia - ho capito poi, da adulta, che non comprare un cazzo di modem era semplicemente l’ennesimo atto di violenza psicologica messa in atto dalla persona che mi ha partorita nei miei confronti - non avevo altre alternative dall’andare all’internet point a 200 metri da casa. Lo avevano aperto da poco in un locale che prima era un negozio con abbigliamento di grandi marchi, che ha provato a resistere per anni in una cittadina della provincia romana dove erano andate a vivere tutte quelle persone che non potevano permettersi di comprare o prendere in affitto una casa a Roma. Quindi, chiaramente, ha chiuso. Gli internet point, invece, fiorivano come le mimose a fine febbraio: erano ovunque, ogni negozio che dichiarava fallimento veniva sostituito in tre giorni da scrivanie orrende con sopra pc altrettanto orrendi, luce bianca da ospedale e tipi abbastanza loschi a gestirli. Facevano anche le fotocopie, spedivano fax, stampavano foto, vendevano oggetti di cartoleria. Costavano poco, ma comunque troppo per il servizio che offrivano. Quell’internet point, nello specifico, era un posto di merda, puzzava, i computer erano vecchi e lenti, le tastiere sempre tutte appiccicose. Ero sempre l’unica ragazza in quel posto di stronzi. Pagavo un’ora, perché era quella che mi potevo permettere: entravo su Msn Messenger, aprivo la pagina del blog, ricopiavo velocemente le parole che avevo scritto a mano sul quaderno, premevo pubblica e tornavo a casa. Non potevo controllare ossessivamente ogni minuto se qualcuno mi stesse leggendo, o monitorare i commenti se non una volta ogni due giorni. Non mi interessava particolarmente perché non avevo idea di come le persone avrebbero potuto trovare il mio blog, o perché avrebbe dovuto trovare interessante la vita di Denise da Guidonia.
(Questo non è l’internet point di Guidonia, quello era molto peggio.)
Sono stata una ragazzina parecchio sveglia: ho conosciuto l’indipendenza molto presto, ho passato anni a girare l’Italia da sola per partecipare prima alle gare di nuoto e poi a quelle di triathlon. Sono stata la prima del mio gruppo di amiche ad avere un cellulare per comunicare i miei spostamenti. A 12 anni prendevo un Cotral, un bus Atac e un trenino per arrivare da Guidonia a Roma per allenarmi. Tutti i giorni. Navigavo il mondo degli adulti con la faccia di cazzo e le gambe lunghe, cercando di mimetizzarmi il più possibile tra loro. Ero abituata a stare da sola, ad avere gli occhi anche dietro la nuca, a camminare a passo svelto, a tenere tutti i miei effetti personali molto vicini al mio corpo, a portare lo zaino davanti sui mezzi pubblici e a non dare confidenza agli sconosciuti. Ero però, allo stesso tempo, anagraficamente piccola e quindi spesso mi gettavo nelle braccia dell’incoscienza, perché nessuno mi aveva mai vietato di fare nulla e le mie paure erano legate all’essere derubata più che all’essere molestata, questioni delle quali non avevo - fortunatamente - ancora idea. Pensavo che gli uomini seduti ai computer di fianco a me fossero lì per il mio stesso motivo, ma mi guardavano tutti in un modo che non mi piaceva, sentivo questi sguardi bucarmi la pelle come raggi laser e arrivare a bruciacchiarmi la carne. Cercavo di non guardarli in faccia, mi sedevo alla mia postazione, restavo fissa sullo schermo e sulla tastiera, scrivevo velocemente, pagavo la mia ora e tornavo a casa.
L’ultima volta che ho messo piede in quel posto di vecchi arrapati è stato quando mi sono accorta che l’uomo di fianco a me stava guardando dei video che ci ho messo un minuto buono a comprendere (un minuto, in questi casi, è un’infinità di tempo.) Erano video ripresi da telecamere nascoste, piazzate nei bagni pubblici, nelle sale di attesa degli aeroporti, alla cassa del supermercato. L’inquadratura era sempre fissa sui piedi. Una sequenza di immagini pixelate, montate una dopo l’altra e pubblicate serenamente su Youtube. Neanche a dirlo, erano tutti piedi tutti femminili: in ciabatte, in scarpe col tacco, in scarpe da ginnastica.
Il tizio era parecchio interessato a quelle immagini, poco importava che fossero state registrate in modo del tutto illegale. Poco dopo, si è tirato fuori il cazzo dai pantaloni. Non era la prima volta che mi ritrovavo di fronte un pene maschile senza che io avessi chiesto di vederlo, sul Cotral mi succedeva di frequente. Ha iniziato a masturbarsi davanti a quelle immagini di piedi. Io ho capito perché quelle tastiere erano così appiccicose, ho premuto log-out da tutte le pagine che avevo aperto, pagato lo stronzo con la faccia da pappone che sapeva benissimo cosa succedeva nel suo negozio ma che non si era mai posto il problema e corsa a casa ho prima vomitato e poi mi sono fatta la doccia più lunga della mia intera vita.
Più di tutto il resto, credo che quel mio sbarco sull’internet possa essere ricondotto alla “sindrome della giornalista nelle rom-com”, sulla quale ho riflettuto a lungo dopo aver letto questa newsletter.
Consapevole già da adolescente del mio status sociale, quello di persona non ricca e non borghese, che mi veniva sbattuto in faccia quotidianamente soprattutto dai compagni di squadra che vivevano in ville lussuose a Collina Fleming, quello della giornalista mi sembrava il mestiere dei sogni, e soprattutto un mestiere che mi avrebbe finalmente permesso di fare un salto in avanti nella scala delle caste: avrei potuto scrivere, tutto il giorno tutti i giorni, essere pagata profumatamente per quello che amavo fare, andare in giro col Macbook e il taccuino in borsa e sedermi a qualunque bar, ordinare un cappuccino o perché no un prosecco, farmi regalare qualunque cosa dai vestiti ai trucchi ai dischi, raccontare quello che i miei occhi incrociavano quotidianamente e cambiare fidanzato come mi cambiavo le mutande. Sognavo di scrivere di musica e di essere più punk di Kate Hudson col vestito giallo in “Come farsi lasciare in 10 giorni” perché in uno dei miei pomeriggi di profonda immersione su internet - quando, finalmente, avevo un computer casalingo da poter utilizzare - avevo scoperto Caitlin Moran. Non sapevo che alle donne fosse concesso di scrivere di argomenti “da uomini”: in quei film le giornaliste si occupavano sempre di moda, di scarpe o di relazioni. Odiavo l’idea che gli scrittori “maledetti” fossero tutti maschi: a loro era concesso scrivere da ubriachi, usare le parolacce, parlare di scopare e di calarsi lsd alle quattro del pomeriggio. Per questo motivo, volevo diventare come quelle donne in carriera dei film ma lasciando da parte la questione della moda. Volevo essere Carrie Bradshaw ma con le Dr Martens, scrivere dopo aver preso dei funghetti allucinogeni, raccontare storie di vita vera, dei cazzi dell’internet point, dei vodka lemon scroccati nei backstage dei concerti, di quella volta che sono finita su un tour bus senza nemmeno sapere il nome della band.
Ho scoperto molto presto che quei film e quelle serie tv non raccontavano la vita vera.
Alle superiori andavo molto d’accordo con la mia insegnante di religione, questione alquanto strana visto che la religione in generale, non solo come materia scolastica, mi ha sempre fatto cacare. Durante le sue lezioni di base dormivo o leggevo dei libri, e lei me lo lasciava fare. Non abbiamo mai parlato di religione o delle sue lezioni.
Lei era una tipa super cool, scriveva per delle riviste, si occupava di arte, faceva parte di associazioni, a vederla era proprio il prototipo dell’insegnate di arte più che di quella di religione, quella vestita da fricchettona ma cool, col capello cortissimo e giustissimo. Forse avevo anche una cotta per lei, non lo so, ci devo pensare meglio. Io, al tempo, di studiare non ne avevo mezza e infatti non lo facevo mai, ma avevo comunque tutti voti altissimi perché, in qualche modo, alle interrogazioni me la cavavo, e poi prendevo sempre il massimo nei temi. Leggevo una cinquantina di libri l’anno perché leggevo sempre: passavo molto tempo sui mezzi pubblici, che era il luogo perfetto per divorarli. Cercavo i testi in inglese delle canzoni, approfondivo solo quei temi che davvero mi interessavano, cosa che effettivamente faccio ancora oggi.
Io le raccontavo che, finite le superiori, mi sarei voluta iscrivere o a lettere o scienze della comunicazione, per diventare una giornalista. Lei mi portava riviste e magazine, mi lasciava contatti ai quali scrivere per iniziare a fare un po’ di gavetta.
Le dicevo che avevo un blog ma che volevo farlo diventare qualcosa di più interessante, lei mi spronava a farlo. I blog, al tempo, andavano fortissimo, e ci si poteva pure guadagnare due spicci (molte persone sono riuscite a guadagnarne anche più di “due”. Io no.) Questa voglia di condividere tutto ciò che mi passava per la testa ha avuto la sua naturale evoluzione nella creazione di un luogo virtuale che fosse mio e solo mio, dove le mie parole non sarebbero dovute passare sotto il controllo di nessuno.
Era una libertà che non avevamo mai avuto tra le mani, della quale poi abbiamo assaporato la parte più amara: quella degli sconosciuti random che venivano a dirti che quello che scrivevi non era interessante. Dopo, però, averlo letto tutto.
Il mio personale “Baby Reindeer”, che ci tiene a dirmi che queste newsletter fanno cacare anche se non le ha mai lette, e soprattutto sono le stesse newsletter che riceve perché si è iscritto lui. Volontariamente. Ok.
Ho avuto tipo 5 Tumblr diversi, il blog prima su Blogspot e poi su Wordpress come le persone serie, si chiamavano tutti “dove sono le mie benzodiazepine?” perché al tempo mi avevano prescritto degli antidepressivi e la vita mi ha insegnato presto a sdrammatizzare tutto. Il primissimo, addirittura, sulla parte blog di Msn, poi chiuso perché volevo che mi leggessero più persone possibili in luogo più professionale ma anche perché avevo scritto un post cattivissimo (ma anche molto divertente) su alcune mie compagne di classe (che voglio dire: alle superiori di che cazzo vuoi parlare?) ma poi loro lo avevano trovato ed era successo il panico. Scrivevo per farmi leggere ma non pensavo fosse davvero possibile che qualcuno arrivasse davvero a leggermi. Non conoscevo la differenza tra pubblico e privato, ho dovuto imparare che internet era un luogo molto pubblico, non era più il diario segreto che nascondevo sotto alle felpe nell’armadio.
Poi ho aperto Medium perché mi sembrava il luogo dove tutte le persone intellettuali buttavano i propri pensieri ed era il periodo della mia vita in cui sentivo la fortissima necessità di staccarmi dall’immagine di coattella. Mi sono ossessionata per anni nel cercare di nascondere il luogo nel quale sono cresciuta, la mia fallimentare carriera accademica, la mia scarsa cultura.
Poi ho aperto una newsletter su Tinyletter e infine eccomi qua. Tra un luogo e l’altro ci sono state molte pause in cui non ho più scritto cose mie ma solo cose per altre persone: è in quel momento che ho conosciuto i lavori creativi.
I miei post facevano un sacco di like, ho conosciuto la viralità prima di conoscere il significato della parola stessa e in un periodo in cui non era così scontato raggiungerla. Ho provato qualunque mezzo, spinta da un’insensata curiosità: volevo essere ovunque, volevo che mi chiamasse Vice per darmi una rubrica pure se il circoletto di Vice mi è sempre stato sui coglioni, volevo che Rizzoli mi scrivesse per dirmi che era ora di mettere tutte le mie parole in un libro, che poi sarebbe potuto diventare un film, volevo essere visibile, riconosciuta, famosa.
Quando è morto mio padre avevo 23 anni e nei miei luoghi virtuali ho iniziato a scrivere tantissimo di lui. Scrivevo di lutto, di confusione, di dolore. Scrivevo assuefatta da qualunque sostanza, ma senza mai dichiararlo. E poi scrivevo di amore, tantissimo, di femminismo, perché avevo capito che quei cazzi visti senza consenso erano una molestia.
Non scrivevo, quindi, qualcosa che mi potesse magicamente trasformare in una giornalista: non erano inchieste, non erano coinvolte altre persone, non erano interviste. Facevo quello che oggi viene chiamato “journaling".
Quel tipo di scrittura, poi, è andato a morire quando sono morti i blog. Io ho smesso di scrivere robe mie personali, ho aperto un profilo Instagram, ho ricominciato a usare la voce come quando facevo la radio e ho messo la mia creatività a disposizione di persone che mi hanno sempre pagata troppo poco ma che almeno mi permettevano di campare.
In questo post, Arden Yum riflette su una questione interessante: ok, abbiamo ricominciato a scrivere, ma non è che scriviamo tuttə le stesse cose? Lei esplora la questione dal punto di vista di una donna asian-american, ponendosi quindi molte domande sulla sua identità e sul privilegio delle donne bianche. Abbiamo recuperato quel modo di rendere il privato pubblico, solo che le persone più giovani non sanno che è un qualcosa che esisteva già. Adesso le donne possono essere sboccate, raccontare le loro preferenze sessuali, ma effettivamente, è giusto rendercene conto: forse siamo tuttə uguali.
La mia carriera di giornalista non è durata a lungo: ho realizzato che non avrei potuto portare avanti quelle aspirazioni senza essere ricca di famiglia. Ho capito molto velocemente che la mia creatività valeva molto meno di quanto pensassi: per qualcuno valeva addirittura zero.
Ho iniziato a scrivere gratis e non capivo il senso di regalare le mie parole a qualcuno se avevo già degli spazi dove non guadagnavo soldi ma che almeno erano tutti miei. L’ho fatto lo stesso per crearmi un piccolo portfolio. Potevo andare ai concerti gratis, mi sentivo potente nel non fare la lunga fila di chi stringeva il biglietto cartaceo tra le mani. La mia creatività valeva al massimo quello, niente di più. Facevo la cameriera, la commessa, la baby sitter, la gelataia. Qualunque cosa che potesse permettermi di pagarmi da vivere, cosa che la mia più grande passione non faceva.
Creare una community, quando ho iniziato, non era affatto semplice. Le persone erano diffidenti, giustamente, non eravamo abituate ad avere un rapporto - anche se solo virtuale - con degli sconosciuti. Chi riusciva ad avere una minima di successo (un post sul blog molto condiviso, dei followers su Twitter, il profilo Facebook al quale non si potevano più mandare richieste di amicizia) veniva presə per il culo. Quando ho iniziato a essere definita “influencer”, ho perso diverse amicizie. Sono passati 10 anni e ancora non ho capito perché. Non prestavo molta attenzione ai profili social delle persone che frequentavo dal vivo, così come davo per scontato che chi mi vedeva 3 volte a settimana shottarmi black mojito e poi fumarmi le canne nella via di San Lorenzo dove adesso non andrei manco pagata, non stesse a leggere le cazzate che scrivevo online. Continuavo a essere molto affezionata ai rapporti umani della vita reale: volevo che le persone intorno a me sapessero cosa mi stesse succedendo nella vita dopo avermelo chiesto, non dopo averlo letto su un blog.
Era un periodo in cui crearmi uno spazio virtuale era più di tutto un modo per scappare dalla realtà che per realizzare i miei sogni di gloria: avevo un padre malato di cancro e nessuno capiva cosa stessi provando. Su internet, invece, potevo confrontarmi con chi stava vivendo la mia stessa situazione, o con chi l’aveva già vissuta.
Farmi del male, in quel periodo, era molto semplice: passavo la maggior parte del mio tempo dentro casa per cercare di imprimere nella mia mente più ricordi possibili. Fuori casa ero sempre alterata da qualcosa.
Ho iniziato a leggere tweet e post su Facebook che erano palesemente dedicati a me. Non ero famosa come una celebrità, non finivo sui giornali di gossip e non avevo fatto i soldi, eppure quel mio minuscolo momento di gloria - che al massimo mi portava a essere invitata a eventi ai quali andavo solo per scroccare la cena perché avevo sempre mediamente massimo 10 euro in tasca - era diventato un argomento di conversazione. Eppure io ero sempre la stessa sfigata coi capelli crespi e il padre malato di cancro. Non credo proprio che essere quella mini tiny internet celeb mi abbia dato alla testa. Sicuramente era un balsamo per l’autostima: accettavo qualunque regalo, anche cose che non mi interessava assolutamente ricevere, semplicemente perché lo trovavo gratificante. Ma nulla di più.
Ho sempre riconosciuto la mia buona dose di privilegio nel riuscire a campare (anche se male) con un’attività che mi piace, ma tutte le cose che davvero mi piace scrivere sono quelle che non mi fanno guadagnare: questa newsletter, dove dico il cazzo che mi pare, e il mio podcast, che comunque prima di interpretarlo a voce lo scrivo a parole. Sono riuscita a rimanere nel gigante mondo della comunicazione, usando la mia creatività in modi diversi dallo scrivere articoli ma comunque scrivendo. Non sono diventata come l’immagine che avevo di me stessa da ragazzina, ma non ci sono andata neanche così lontana. Ma ho pagato un prezzo carissimo.
Ci sono giorni in cui inizio a scrivere e non smetto più. Riempio pagine e pagine di parole, scrivo su pages, poi sulle note, scrivo qua nelle bozze, sui doc di Google. Tutte cose che, però, non sono il mio vero lavoro.
Penso spesso a come sarebbe la mia vita se non avessi scelto un lavoro creativo, poi mi rendo conto che è stato lui a scegliere me. Io non so fare altro che questo. Davvero.
Però questo pensiero è tornato prepotente nell’ultimo anno, quando sono stata vicinissima dal mollare tutto per tornare a fare la commessa. Perché gli spazi sono sempre meno: le redazioni licenziano e poi falliscono, i vecchi uomini bianchi non vogliono andare in pensione e quindi continuano a occupare pagine e pagine, la concorrenza è spietata e i soldi sono pochi.
Mi sono spesso chiesta che fine farà la scrittura: quante persone, ancora, usano 20 minuti del proprio tempo per leggere un articolo, una newsletter, un post? Quante persone sanno davvero scrivere?
Il grande successo di Substack dovrebbe dirci qualcosa: non è vero che le persone non leggono più, è che non sanno più cosa leggere. Hanno paura dell’intelligenza artificiale, che possa rubare loro il lavoro, dicono che il lavoro di chi scrive è destinato a svanire, ma poi non fanno assolutamente nulla per tornare a dominare il mezzo. L’intelligenza artificiale (per ora) non è più intelligente della nostra: è una macchina, deve per forza avere dei limiti e soprattutto ci vorrà sempre un essere umano dietro a indirizzarla. Siamo noi a dover dettare le regole al mezzo, non il contrario. Ma se vuoi pagarmi due euro per le mie parole, amico mio, certo che inizierò a usare chat gpt, perché è quello che meriti.
(Creative Careers Zine, 2019. Credit: Celia Dipple)
I lavori creativi sono tantissimi, alcuni ancora sconosciuti. Il mio, spesso, non viene compreso. Scrivere di mestiere non vuol dire solo pubblicare libri o articoli sulle riviste, ma ricevere dei soldi per aver messo insieme una sequenza di parole che possono creare una pubblicità, un post sui social, un podcast, un programma radio e tv, una strategia di comunicazione, uno spettacolo teatrale. Farlo è ormai difficilissimo: è uno di quei lavori che chiunque crede di poter fare. Dare un prezzo alla creatività diventa sempre più difficile.
Siamo arrivatə su Substack con la coda tra le gambe perché lì fuori non ci sono più luoghi sicuri per noi. Torniamo indietro nel tempo, facciamo quello che facevamo nei primi anni 2000, cerchiamo di tornare a essere persone e non progetti.
I lavori creativi sono molto meno glamour di come li immaginavo e di come ci sono stati mostrati nei film, e quando qualcuno mi chiede consigli su come entrare in questo mondo, io rispondo di cambiare ambizioni. Scriviamo su un laptop che abbiamo pagato coi nostri soldi, inforchiamo occhiali per la luce blu e perdiamo pezzetti di diottrie ogni giorno, paghiamo a nostre spese l’elettricità e il wifi, digitiamo ricurve su sedie scomode o addirittura sui letti, mentre il mondo fuori dalla finestra corre veloce. Raccontiamo storie che noi non viviamo più, abbiamo armadi pieni di tute da casa, tazze macchiate di the e caffè impilate nel lavandino, scadenze che lampeggiano sui calendari per lavori che ci verranno pagati tre mesi dopo. Ci viene richiesto di semplificare tutto, di ridurre tutto all’osso: va di moda la velocità, la semplicità, la superficialità.
E chi ha capito prima di noi che scrivere non ci avrebbe portate molto lontano, ha iniziato a fare i video non per particolari velleità da vj ma perché era quello che l’internet chiedeva di fare, schiave dell’algoritmo e del content. Prima video lunghi, orizzontali, su Youtube, poi sempre più corti, verticali. Hanno ammazzato l’approfondimento, il racconto, negli articoli lunghi a metà c’è un riassunto di due righe per chi “ha fretta.”
La qualità è ai minimi storici: non si riesce a proporre un progetto interessante, diverso dal solito. Le interviste sono ridotte al chiedere se tale persona preferisca il sushi o i ravioli al vapore. I giornali pubblicano articoli clickbait o fatti appositamente per creare polemica e quindi alzare l’engagement. La scrittura è diventata contenuto: da condividere, stringato, deve fare numeri.
Ci sono penne splendenti, alle quali invidio infinitamente la bravura, che non trovano spazio per brillare. Parlo da lettrice e non da persona che scrive. Internet detta le regole, abbiamo permesso a un mezzo non umano di impossessarsi delle nostre vite e di gestirle, è lui a decidere che argomento dobbiamo trattare, in che modo dobbiamo affrontarlo, su che piattaforma. L’AI non sarà la morte della creatività, perché la creatività è già morta.
Se questa newsletter mi permettesse di campare, probabilmente non farei altro. Non provo più interesse nel vedere il mio nome sulle testate famose, non potrei scrivere in questa maniera sboccata che mi rappresenta e di qualunque argomento mi passi per la testa. Da lettrice, mi accorgo subito quando la creatività è stata oscurata: il tono che a un certo punto cambia, frutto di modifiche insensate.
Anche oggi, che di anni ne ho 36 tra due mesi e mezzo, mi ritrovo a dover combattere per dare il giusto valore economico alla mia creatività. Come quando ne avevo 22.
Per pubblicare un libro ho pochi followers su Instagram, per essere presa seriamente quando parlo di temi seri ne ho troppi.
Inscatoliamo la nostra creatività e la mettiamo al servizio di chi ci sostituirebbe con un robot senza pensarci due volte.
Eppure resistiamo, finché riusciamo. Perché scrivere è resistere, e questo l’AI ancora non sa farlo.
P.s: questa newsletter è gratuita e continuerà a esserlo per sempre, ma se ti piace l’idea di supportare il mio lavoro (non solo questo, che effettivamente esce quando me va, ma tutto il resto che faccio in luoghi dove non guadagno un euro manco se accendo un cero alla Madonna del Divino Amore) puoi sottoscrivere un abbonamento a pagamento!
Cara Denise, in un periodo in cui tutto va veloce è bello potersi imbattere in queste piccole perle. Ti seguo anche su IG, su cui però ho disattivato l'account da tempo, dopo un periodo di affaticamento mentale da scrolling compulsivo, dove tutto ciò che vedevo era pregno di sdegno e odio. Quel che mi restava addosso era un vuoto enorme. Personalmente su Substack sto ritrovando un mondo che mi piace di più e sento di non essere l'unica, lo vedo.
Mi è sempre piaciuto il tuo modo di raccontare, che fosse scritto o parlato.
Io credo che la creatività non morirà finché ci saranno persone come noi, pronte a dare e ad accogliere.
Mi ritrovo in tante cose che hai scritto. Vengo anch'io dalla periferia romana, sono tornata qui da poco, tra l'altro, dopo 7 anni a Milano, proprio perché sentivo bisogno di rallentare.
Siamo fatti per creare e per relazionarci con l'altro, è tutta qui la vita.
Se dovesse morire la creatività, moriremmo anche noi.
C'è chi ha capacità di esprimersi come te (cosa che invidio tanto, in senso buono) e c'è chi continuerà a commuoversi ritrovandosi nelle parole di altrə (come me). Non abbiamo mai mangiato pasta e facioli insieme, ma ti mando un abbraccio e, quando arriverà, sarò pronta ad accogliere la prossima newsletter.
La tua riflessione mi ha fatto tornare in mente un saggio di Ursula Le Guin che ho letto recentemente. Non lo cito letteralmente perché non lo ricordo in maniera esatta, ma il concetto è che siamo arrivati fin qui, alla morte della creatività in funzione dell'intrattenimento, perché anziché la censura si è scelto di far perdere potere all'arte in un altro modo: depotenziandola, togliendole il potere di cambiare la realtà. Non c'è più bisogno di censurare i libri, o distruggerli, quando non c'è più nessuno che desidera leggerli. E quindi si, forse la creatività è già morta, almeno a queste latitudini.