In una scena di “A Real Pain”, il film di Jesse Eisenberg con lo stesso Jesse Eisenberg e Kieran Culkin, il personaggio di Eisenberg (David) a un certo punto si lancia in uno sgangherato ma profondo monologo, seduto al tavolo della cena con il resto del gruppo di sconosciutə con ə quali sta affrontando un tour di una settimana in Polonia, nei luoghi simbolo dell’Olocausto. David e Benji sono due cugini, ebrei americani con origini polacche, nati ad appena 3 settimane di distanza, figli di due fratelli e nipoti di Dory, la loro nonna polacca che, dopo la sua morte, lascia dei soldi in eredità ai suoi nipoti affinché loro intraprendano questo viaggio insieme, alla scoperta delle loro origini. Lo sbotto di David nasce dopo che Benji (Culkin) si alza dal tavolo per andare in bagno dopo l’ennesimo dei suoi sfoghi (davanti a tutte le persone presenti) altrettanto sgangherati e altrettanto profondi. David e Benji sono due persone completamente opposte: il primo ha un buon lavoro, una moglie, un figlio, prende delle medicine per l’OCD, non alza mai la voce, segue sempre le regole e vuole pagare il biglietto del treno mentre Benji è il ribelle, non ha nessun tipo di stabilità economica, lavorativa o sentimentale, fuma erba, dice sempre quello che pensa ad alta voce e scappa dal capotreno.
David racconta un’esperienza vissuta da Benji (che non vi spoilero) e subito dopo descrive come lui affronta la vita:
“Prendo delle pillole per il disturbo ossessivo compulsivo e corro, faccio meditazione, vado tutti i giorni al lavoro e la sera torno a casa e passo oltre perché sento che il mio dolore non è eccezionale, quindi non sento il bisogno di appesantire le altre persone.”
Inutile dirvi che, per buona parte del film, mi sono rivista totalmente in Benji: una di quelle persone devastate che tentano di mascherare la sofferenza con un comportamento considerato da chiunque “sopra le righe”: è David stesso a descriverlo così, prima davanti a quei compagnə di viaggio inconsapevoli del loro legame e poi davanti a Benji stesso, sul tetto di un hotel dove Benji ha trascinato David per fumare l’ultima canna rimasta, prima di ripartire alla volta degli Stati Uniti. Ha ragione chi dice che le persone che utilizzano quotidianamente la comicità sono quelle che stanno peggio (I see you, Benji.) Ma durante quel discorso, sono riuscita a immedesimarmi anche in David. Negli ultimi mesi mi sono chiesta spesso se tutto questo parlare di stare male fosse troppo. Come potete vedere dalla lunghezza di questa newsletter, mi sono risposta di no.
David si preoccupa per Benji, più di quanto faccia Benji stesso, alternando del sano affetto a una buona dose di invidia: com’è possibile che le persone siano più attratte da una persona rotta che da una - apparentemente - intera? Come si fa a riuscire a vedere noi stessə come ci vedono le altre persone? ə compagnə di viaggio salutano Benji come se fosse un amico di sempre, David è un fantasma.
La percezione che abbiamo di noi stessə e il modo in cui ci vedono le persone spesso possono non coincidere affatto (sia in positivo, che in negativo): noi possiamo coprire tutti gli specchi e smettere di guardare la nostra immagine riflessa, ma gli specchi che non possiamo evitare sono gli occhi delle persone che abbiamo intorno.
Se avete visto The Bear (COSA CHE MI AUGURO), il monologo di David potrebbe farvi tornare in mente quello del personaggio di Carmy (Jeremy Allen White) nell’episodio 8 della prima stagione (con le dovute differenze, certo: quello di Carmy dura 7 minuti, avviene durante una seduta di terapia di gruppo, ecc...) In entrambi i discorsi c’è una persona che parla di se stessa ma che non può fare a meno di parlare anche di un’altra figura, un fratello da una parte, un cugino dall’altra, uno che è morto e uno che vorrebbe esserlo.
Non vorrei sempre riempire la vostra casella di posta (e le vostre orecchie, se ascoltate il mio podcast) di tristezza e lamentele, ma sento di avere le spalle abbastanza coperte perché chi non si rende conto che stiamo affondando come società è una persona che ha evidentemente gli occhiali appannati.
Qualche sera fa ho aperto un box domande su Instagram, in onore del mio ritorno sui social e per ricordare all’algoritmo che esisto e che nella vita vorrei fare l’intrattenitrice. Mi sono presa il mese di dicembre come detox da tutto, soprattuto dai social. Anche se per una stronza random che mi ha scritto in dm ho comunque pubblicato troppo (come se ci fosse una tabella da seguire e soprattutto se potesse buttarla giù una persona diversa da me stessa) per me - che sono abituata a pubblicare 30 storie al giorno, la maggior parte parlate - è stato come andare totalmente in letargo. L’ho fatto perché ne avevo bisogno, perché la mia salute mentale era ai minimi storici, perché ho cambiato città in tre giorni, perché una situazione familiare scomposta mi ha portata a non tornare a casa per Natale, sì, ma soprattutto perché dovevo capire chi sono e non volevo essere quotidianamente bombardata dai successi altrui. Il box domande è una delle poche cose che ancora apprezzo di Instagram: mi permette di sentirmi connessa con le persone che hanno deciso di premere “segui".” Non sono mai stata una creator da “pubblico e scappo”, credo che sarete d’accordo con me. Mi piace il senso di comunità che si crea con chi ascolta quello che dico e legge quello che scrivo, non può non esistere uno scambio nel mio personale approccio ai social. Le persone che mi seguono mi chiedono qualunque cosa, su qualunque argomento. Forse per qualcuno potrebbe essere l’ennesima forma di egocentrismo: ma chi ti credi di essere, ma chi sei per dare consigli, ma a chi dovrebbero interessare. C’è sicuramente una buona percentuale di bisogno di sentirsi interessante per qualcuno nell’aggiungere un box domande a una tua storia, assolutamente questo non lo nego, ma soprattutto in questo periodo storico smarmellato mi sembra che abbiamo tuttə bisogno di parlare con qualcuno, non importa se quella persona sia davvero fisicamente davanti a noi.
Parlare dei propri cazzi personali, però, è un’arma a doppio taglio, come ormai qualsiasi cosa finisca su internet: da una parte ci sono quelle persone che capiscono il potere di condividere la sofferenza, dall’altra c’è chi vuole solo leggere positività perché il mondo reale è già così brutto che, almeno quello virtuale, dovrebbe essere perfetto. Me ne sono accorta a mie spese quando ho condiviso il video del mio TED X, ma ne parlo più sotto. *
La maggior parte delle domande non erano in realtà domande, ma affermazioni, e questo mi fa capire che continuare a fare quello che faccio è ok. Molte persone tendono a raccontarmi i cazzi loro, perché credo di essermi sempre posta come pronta ad ascoltarli e soprattutto perché sono la prima a raccontare i miei, quelli belli ma soprattutto quelli brutti. E io, che ho passato tutto il 2024 a pensare che non sarei arrivata a Natale, come un’Ornella Vanoni meno milanese e con una voce peggiore, mi sono sentita compresa.
L’impressione è che questo anno bisesto finito da una manciata di giorni ci abbia sderenatə tuttə ognuno con i cazzi suoi, ma almeno un aspetto delle nostre vite è scoppiato in una supernova e i detriti ci hanno lasciato delle ustioni su tutto il corpo. Per alcune persone, e io sono una di quelle (yeeeeee), lo scoppio ha interessato ogni cosa: il lavoro, i soldi, la salute mentale, la salute fisica, la famiglia, l’amore, e che cazzo altro doveva scoppiare santo cielo, mi sembra già abbastanza così. Benji non sembra vedere un futuro per la sua condizione: la cavalca così com’è, credo la pensi come me sul concetto di guarigione perché sappiamo che puoi guarire una parte o più parti ma le altre resteranno quelle che sono.
A sentirmi intrappolata in questo buco nero, quindi, non sono sola: non sono l’unica a cercare di esorcizzare tutto come Benji. Vorrei davvero ricominciare a essere la persona divertente che sono sempre stata (sì, me lo dico da sola), ricominciare a parlare di argomenti diversi dagli attacchi di ansia ma, al momento, non passerei una serata con me stessa nemmeno se mi ricoprissero di soldi. Mi chiedo quotidianamente se tornerò a essere quella di prima, e mi chiedo anche se quella di prima fosse la vera me. Forse si è rotto tutto perché io non avevo colto i segnali singoli che la vita mi stava mandando, forse è successo per caso, forse non ero poi così divertente. Forse posso fare un mix.
Guarigione è una parola che non mi piace, è la definizione che si usa in risposta alla malattia e che quindi, in automatico, inserisce la malattia nella lista delle cose negative. Ovviamente stare male non è una roba che una persona si augura, ci si augura di stare bene, di riuscire a vivere (e a sopravvivere) in maniera felice, o quantomeno dignitosa, ma se il processo di guarigione diventa un’ossessione o il centro di un post dell’ennesimo fuffaguru su Instagram, allora stiamo fallendo. Mettere delle tempistiche a questo complicato processo, pensare che basti semplicemente volerlo, pensare di raggiungerla solo con la mindfulness e le tisane e il completino da yoga al 50% di sconto è una delle più grandi stronzate di questa era moderna in cui abbiamo trasformato la salute mentale in un discount. E c’è anche quel neanche velato sottotesto che ti dice che se non riesci a guarire è perché non sei abbastanza forte o non ci stai provando abbastanza. Ci sto provando, Cristo, ma non mettere start al timer.
Eppure io non posso negare di aver intrapreso un processo di guarigione e di essere una persona diversa, ma preferisco usare la parola “healing”, non per fare l’anglofona a tutti i costi ma perché mi sembra una versione meno legata al cattolicesimo. Non so quanto mi ci vorrà ancora, immagino mesi, spero non anni, sicuramente parecchi soldi e una costanza che spesso mi manca.
Nel 2024 sono stata una persona così diversa dal solito che forse dovrei usare uno dei miei altri due nomi per descrivermi (ho scoperto di avere altri due nomi pochi anni fa, per caso - come ho scoperto molte altre cose della mia esistenza da poco e altrettanto a caso - ma non devo usarli sui documenti o per firmarmi e soprattutto questo triplo nome non è frutto di una tradizione famigliare borghese, non vi ho mentito sulle mie origini in tutti questi anni.)
L’essere umano è sempre alla ricerca di cambiamento, per natura. A volte, però, succede senza che tu lo abbia ricercato.
Nel 2024 sono uscita di casa pochissimo, solo quando davvero necessario. Ho preso meno treni, visto meno volte gli amici e le amiche, sono stata a un solo festival estivo (il Mi Ami è in primavera, raga), rifiutato inviti a eventi. Adesso che ho ricominciato a farlo, con calma, mi stanco dopo mezz’ora. Fuori casa tutto è uno stimolo fastidioso: i rumori, le persone che non conosco, gli odori della città, le luci troppo forti. Qualunque altro argomento mi sembra sciocco. Non ho comprato vestiti, tanto non avrei saputo in che occasione indossarli. Non sono stata una persona particolarmente divertente, in nessuna occasione. Ho sicuramente messo qualcuno a disagio. Nel tempo che non ho passato fuori casa, non ho portato avanti nessuno dei miei soliti hobby. Duolingo ha smesso di bombardarmi di notifiche per il mio corso di tedesco perché credo abbia capito che non avrei aperto l’app nemmeno se me lo avesse chiesto Paul Mescal, ho accumulato decine di lezioni del corso LIS, ho letto 3 libri in tutto l’anno, fatto rewatch di serie che avevo già visto 50 volte per non dovermi concentrare su qualcosa di nuovo. Cosa ho fatto, quindi, in tutto quel tempo passato a casa: ho pianto, sono stata sdraiata sul letto, ho scritto decine di pagine di roba che forse non vedrà mai la luce. Non sono andata mai a ballare, se l’ho fatto non ne ho memoria.
Mi torna di nuovo in mente il discorso di David, quella voglia di non mettere addosso alle altre persone la tua tristezza. A volte, però, farlo è inevitabile, e non è nemmeno così sbagliato: le amicizie - o almeno: quelle che sono in grado di starti accanto - sono parte integrante dell’healing process.
Il fatto è che se smetti di parlarne o se ti metti la stessa maschera che si mette Benji, le persone penseranno che tu stia improvvisamente benissimo. “Cioè, fammi capire, stai ancora male?”
Solo chi sta male capisce chi sta male, o chi è statə male, o la psicologa. Ma la parola “guarigione” mi infastidisce anche perché lo stato depressivo è dentro di me, da quando sono nata. Ci sono momenti in cui resta sopito - fortunatamente la maggior parte della mia vita - e altri momenti in cui si riaccende. Come un vulcano attivo, che non sono io a controllare.
Mi sono - di nuovo - distrutta e ricostruita. O meglio: la distruzione è stata completa, non è rimasto un singolo pezzo intatto di me stessa, la ricostruzione è appena iniziata, siamo ancora alla posa delle fondamenta, ma senza quelle non si costruisce nulla quindi sono la parte più importante. A spaventarmi lo scorso anno non è stata tanto l’intensità, quanto la durata. Mai nella mia vita un periodo buio è durato così tanto, nemmeno quando ero più giovane e avevo quindi meno strumenti per affrontarlo, nemmeno in quello che ho sempre pensato sarebbe stato per sempre un periodo impossibile da superare a livello di dolore. Un tempo che mi sembra infinito e che mi porta quindi a pensare quotidianamente che quindi, semplicemente, non finirà mai. Non tornerò più quella di prima, non conoscerò più una giornata senza la tachicardia, continuerò ad avere paura di tutto, mi vergognerò per sempre di tanti errori che ho fatto.
(Illustrazione di Gemma Correll)
Perché a un certo punto io chi sono me lo sono scordato: ero quella divertente, che fine ho fatto?
Ho in mente il momento in cui mi hanno diagnosticato, a 29 anni, la discalculia, quindi una neurodivergenza: mi hanno spiegato che se la diagnosi fosse arrivata in età scolare, quindi intorno ai 6/7 anni, sicuramente la mia vita sarebbe stata diversa, perché è più semplice abituare una mente giovane, è più fresca, non ancora del tutto formata, pronta ad assorbire il più possibile. Come quando provi a usare il DAS: se è fresco, riesci a dargli tutte le forme che vuoi, ma se ormai è secco puoi sì aggiungere dell’acqua, ma non sarà mai come la prima volta che l’hai aperto. Cambiare totalmente me stessa a 35 anni mi sembra quindi impossibile: ci sono aspetti di me che ormai sono calcificati e che non riuscirò mai a modificare, e provo parecchia difficoltà nell’essere due persone così diverse in una, ma non lo sono solo online, lo sono anche nella vita: la mia visione delle cose cambia, ormai, in maniera radicale anche nella stessa giornata. Mi sento Dottor Jekyll e Mr. Hyde e a volte non mi sento proprio niente.
Questa che segue non è una lista di buoni propositi, perché ho smesso di farne, e nemmeno una manifestation board, perché internet ha reso insopportabile anche questa pratica, è solo una manciata di cose che mi porto nel nuovo anno.
* È uscito il video del mio TED X, fatto a Vasto, a novembre. Che figata, cazzo: ho fatto un TED X! Beh, vi devo dire che: l’ho riguardato a fatica. Mi sono data diverse pacche sulla spalla da sola quel giorno: ho scritto un discorso di 15 minuti, ci ho messo dentro alcune delle esperienze più dolorose della mia vita, l’ho imparato a memoria, l’ho ripetuto all’infinito, l’ho registrato come nota vocale per ascoltarlo e continuare a memorizzarlo ogni giorno, mentre cucinavo, mentre facevo la doccia, mentre camminavo per Bologna, sui treni, sempre e ovunque. Sono arrivata su quel palco dilaniata: dall’ansia, da uno stato depressivo, da una pulpite dentale che mi ha portata a dovermi shottare antibiotico, gastroprotettore e antidolorifico tre minuti prima di salire sul palco. Il risultato è molto diverso da quello che mi aspettavo e anche molto diverso dalla percezione che avevo di me in quel momento.
Quella che vedo sullo schermo è una persona mangiata dall’ansia, cosa che solitamente non sono su un palco. Lo sono fino al secondo prima ma poi puf, tutto sparisce. Mi guardo toccare compulsivamente gli anelli, gesticolare anche se avevo fatto le prove per non farlo. Mi vedo ingobbita, con gli occhi lucidi, con la memoria corta. Su Youtube sono arrivati due commenti cattivi, entrambi dicono che il mio discorso sia privo di contenuti, e che lo sono anche io. Uno in particolare dice che mi sarei dovuta fare qualche scrupolo prima di mettermi in mostra, e sapete che vi dico? Che gli scrupoli se li fanno le persone cacasotto. Io ho voluto farlo lo stesso, al meglio delle mie possibilità in quel momento, consapevole che sarebbe potuta andare meglio ma comunque l’ho portata a casa. Fanculo agli scrupoli e fanculo alle persone che vogliono solo sentire storie di vita dorata e privilegiata.
Ho bevuto - e sto continuando a bere - pochissimo alcool. Non sono diventata astemia e non ho intenzione di diventarlo, ma bere non è più un rifugio. Non sono l’unica persona ad aver abbracciato questa filosofia: la Gen Z beve sempre meno, è un dato di fatto. In questo articolo del Time, Solcyré Burga scrive: “It is becoming clear that, for whatever reasons, today’s younger generations are just less interested in alcohol and are more likely than older generations to see it as risky for their health and to participate in periods of abstinence like Dry January.”
Ho trovato molto interessante anche questo articolo, scovato nell’altrettanto interessante newsletter di Conoscounposto, che aveva affrontato l’argomento “no alchool” anche nelle sue storie Instagram. Da persona molto incline alle dipendenze, decidere di bere meno è stato, per me, una responsabilità verso me stessa.
Sono, quindi, dimagrita. Dico “quindi” perché è innegabile che togliere l’alcool porti il nostro corpo a sgonfiarsi. Sono dimagrita anche per altre motivazioni e non mi interessa parlarne perché non è stato un processo del tutto voluto.
Ho guardato un’intero match di tennis, sport che non è mai stato nella lista dei miei preferiti. Non mi sono mai staccata dal computer, dal primo all’ultimo minuto. Sono abituata alle gare lunghe, in realtà sono le mie preferite perché, mi riportano al mio passato di atleta, ma mai avrei pensato di durare 3 ore davanti a uno sport che non mi è mai piaciuto particolarmente.
Ho mangiato il sedano, che ho sempre pensato non mi piacesse senza averlo mai assaggiato, e una zuppa non frullata.
Ho ricominciato a correre e sto aspettando febbraio per iscrivermi in piscina. Entrambe le attività sono necessarie per raggiungere un obiettivo che mi sono prefissata per il 2026, cioè quello di partecipare a una gara di triathlon, ma molto velocemente le due cose sono diventate molto di più.
Però non ho ancora smesso di fumare.
Mi sono liberata di alcune persone che non mi facevano stare serena. È un processo doloroso, a volte egoista, e spesso non ci sono particolari spiegazioni da dare. Essere in grado di stare vicino a una persona che sta male non è cosa da tuttə e va bene così, ma va bene anche scegliere a chi affidare la tua sofferenza.
Contemporaneamente ho iniziato a sentirmi tutti i giorni con una mia amica, che ho sempre considerato un’ottima amica, ma con la quale non ho mai avuto questo tipo di rapporto così stretto e quotidiano. Non per motivazioni particolari o negative: abbiamo lavorato insieme anni fa e ci siamo sempre trovate benissimo, ci siamo divertite come le pazze, mi ha ospitata a casa sua a Roma quando mi hanno chiamata per fare un programma tv su Rai 2 mentre ero al Primavera Sound a Barcellona e quindi non sapevo davvero dove cazzo andare a dormire.
Le ultime due amiche con le quali ho avuto questo rapporto epistolare 2.0 quotidiano non sono più mie amiche. Parto quindi un po’ spaventata.
Parliamo un sacco di boni, di nuoto, della mia crush per un tizio che manco ho mai visto dal vivo, di fatture non saldate, di insoddisfazione professionale, ma siamo una ragazza toro e una ragazza sagittario (segno nel quale io ho la luna) quindi non riusciamo a prendere niente alla leggera. Questo vuol dire che ci mandiamo vocali di 4 minuti, nella stessa giornata cambiamo argomento e tono 50 volte. Ci sono giorni in cui lei è in down e io in up, e giorni in cui è il contrario. Giorni in cui io sono quella che dice che non ce la fa più, e giorni in cui io sono quella che cerca di tirare su entrambe. Adesso capite perché ho creato un podcast? (è anche la persona che mi ha spinta a farlo, se vogliamo proprio essere precise.)
Si dice che “i capelli custodiscono i ricordi” ed è per questo che, dopo periodi particolarmente traumatici, il primo gesto che molte persone fanno è quello di tagliarli. L’ho fatto tante volte anche io, e ci ho pensato spesso negli ultimi mesi, e poi ho deciso di fare il contrario: farli crescere, più di quanto io abbia mai fatto nella vita, per vedere dove possono arrivare, quanto resistono attaccati a questo corpo ammaccato, voglio prendermi cura di loro come se fossero un essere vivente che ho preso in affidamento.
P.s: questa newsletter è gratuita e continuerà a esserlo per sempre, ma se ti piace l’idea di supportare il mio lavoro (non solo questo, che effettivamente esce quando me va, ma tutto il resto che faccio in luoghi dove non guadagno un euro manco se accendo un cero alla Madonna del Divino Amore) puoi sottoscrivere un abbonamento a pagamento!
“Cioè, fammi capire, stai ancora male?” mi ha ricordato quella volta in cui un mio amico mi disse "credevo che fossi felice perché non dicevi nulla". Il dolore sembra che esista solo se manifesto e plateale, e forse è questo che ci fa sentire soli se lo si prova, e forse sempre questo che lo fa acuire. Sono d'accordo con te sul fatto che condividere sia importante: allevia un po' il dolore, perché fa rendere conto che è un'esperienza di tanti. Quindi, grazie per condividere alti e bassi con noi, Duedita!
PS: anche io sto provando a far crescere i capelli il più possibile. È un esperimento :)
Quanto cazzo è vero che chi sta male spesso è il giullare di corte. Che bella questa newsletter. E quanto ti capisco quando dici che non esci perché non vuoi rovinare l’umore degli altri. Tantissimo. Sei bella da leggere Denise ♥️ grazie!