*Che voglia di rispondere “che strano, parrebbe proprio che sei uno stronzo.”*
Questo post è classista? Sì.*
Questa newsletter potrebbe finire qui, ma ho molte altre cose da aggiungere. Mi dilungherò, come al solito, Substack mi dirà che ho esaurito i caratteri per l’anteprima della mail, come al solito, ma sono cose che mi tengo dentro da anni, che mi riguardano in prima persona da tutta la vita e che sapevo che, prima o poi, mi avrebbero portata al limite.
Quel limite è stato superato in questi giorni.
Iniziamo col botto: l’istruzione e la cultura dovrebbero essere accessibili a chiunque, siamo d’accordo no? Benissimo, immagino di sì. Il problema è che NON LO SONO. Chi non se ne rende conto, non ha mai avuto problemi ad accedervi. Va bene, coi privilegi ci nasci e non li scegli, non è una colpa. Potersi permettere di studiare e avere accesso a tutto ciò che messo insieme consideriamo cultura è un privilegio. Ma la parola “privilegio”, ultimamente, fa molta paura: è stata svuotata del suo significato a suon di “eh ma allora tutto è privilegio.” Proprio tutto tutto no, ma molte cose lo sono. Molte cose che diamo quotidianamente per scontate. Io sono bianca, abile, ho uno dei passaporti più forti del pianeta, sono cisgender ed eterosessuale. Posso comprarmi gli assorbenti (non proprio sempre, ma ok), posso lavorare, ho una famiglia alle spalle (nonostante tutto) e ho un tetto sulla testa. Ho avuto accesso a libri, dischi, film. Ho potuto studiare, fino a un certo punto. Ho avuto intorno persone che mi hanno trasmesso delle passioni che hanno a che fare con l’arte, in qualunque sua forma.
I privilegi che non vediamo, che non riconosciamo e che non accettiamo di avere sono quelli che non chiamiamo privilegi perché ci sembrano la normalità, insomma perché studiare dovrebbe essere un privilegio? Chiunque può accedere all’istruzione allo stesso modo, no? E invece fanno comunque parte di come siamo posizionate all’interno della società. Un privilegio che abbiamo il dovere di riconoscere e sì, mi ci metto in mezzo anche io, anche se per molte persone (tipo chi ha scritto quel thread) non mi ci dovrei mettere, è quello di poter avere accesso alla cultura. La cultura forma la mente, ci fornisce gli strumenti per ragionare, per affrontare la vita.
Ma nella definizione di “cultura”, non è citata l’istruzione. Si cita “lo studio”, un qualcosa che è ancora troppo spesso collegato solo ai libri scolastici e ai testi accademici, ai titoli di studio, alla laurea, ma si può studiare fuori dai banchi di scuola e dalle aule delle università. Il termine deriva dal latino e significa “coltivare”. Puoi coltivare la cultura come e soprattutto dove cazzo vuoi? Sì.
Chi sceglie volutamente di essere ignorante, non ha la mia simpatia. Sono persone contro le quali combatto ogni giorno, nella vita reale e sui social. Chi ha accesso ai mezzi per non essere ignorante e sceglie di non utilizzarli mi fa incazzare, sputa in faccia a chi non li ha. Se hai un iPhone da 1200 euro con una connessione internet per googlare i risultati di Roma-Milan, ce l’hai anche per googlare il significato della parola “patriarcato.”
Chi, invece, è ignorante non per scelta, ma perché l’accesso ai mezzi e alle informazioni non li ha avuti e continua a non averli, non la considero una persona inferiore a me. Non ho bisogno di mettermi su un piedistallo e urlare che so usare il congiuntivo e ho letto tutti i libri di Italo Calvino.
Se devo parlare di me stessa a livello accademico - cosa che mi permetto di fare visto che questa è la mia newsletter - non posso di certo vantarmi della mia carriera scolastica. Conosco i miei limiti, mi hanno fatta soffrire per anni, me li hanno sbattuti in faccia, ho imparato ad accettarli e a non farmi definire da loro. Non essermi laureata mi fa male ma non più perché mi sento inferiore, ma perché studiare mi è sempre piaciuto tantissimo. Avrei voluto respirare quell’aria di curiosità che si respira in università più a lungo, godermela senza attacchi di ansia, unirmi a un collettivo. Ogni volta che torno in qualche università per lavoro, mi illumino. Mi piace l’aria frizzante che si respira nei corridoi, la voglia di utilizzare il proprio tempo per inserire nel cervello nozioni e informazioni, i momenti di socialità e di impegno politico.
Ho frequentato un istituto tecnico invece di un liceo, ho frequentato l’università senza mai finirla e quindi non mi sono laureata. Nonostante questo, lavoro nel mondo della cultura da quando ho 19 anni.
Eppure continuo a definirmi sempre più “creativa” che “lavoratrice della cultura”, perché usare la parola cultura in relazione alla mia persona mi fa sempre - ancora - un po’ sorridere: forse è vero che certe cose, di dosso, non te le toglierai mai. Io non credo di essere una persona ignorante, ma non mi ritengo neanche un’intellettuale. Se, però, con cultura intendiamo anche tutto ciò che appartiene alle forme d’arte, allora un po’ di cultura (in alcuni ambiti) ce l’ho.
Il mio percorso scolastico, lo so, mi rende accademicamente inferiore a molte persone, ed è la realtà, una realtà contro la quale non posso combattere e che non nascondo. Le materie che avete studiato le conoscete meglio di me e anzi, alcune io non le conosco proprio. Non posso accedere a molti concorsi pubblici perché non ho una laurea. Non sono stata la prima laureata della mia famiglia, come tutte le persone della mia famiglia pensavano. Ma solo accademicamente, appunto.
Parliamoci chiaro: nessuno (o almeno: non io) vuole sputare sui vostri risultati accademici. Ve li siete sudati ed è giusto che vi venga dato il giusto riconoscimento. Studiare è mentalmente stancante e continuare a non riconoscere la fatica che fa il cervello e concentrarsi solo su quella che fa il corpo è stupido, soprattutto in un periodo storico in cui moltissime persone guadagnano più col cervello che col corpo. Ѐ importante parlare di quanto lo studio possa distruggere la salute mentale, analizzare i burnout e i sentimenti negativi che le aspettative possono provocare.
Però una persona che ha smesso di studiare ha comunque faticato, ve lo assicuro. Forse questo non vi è ancora molto chiaro. Ha avuto accesso al mondo del lavoro prima di chi ha continuato a studiare, un mondo del lavoro fatto di pochi soldi, sfruttamento e nessuna tutela. Non ci stavamo grattando la figa mente voi eravate sui libri. Ci stavamo facendo comunque il culo.
E provateci a entrare nel mondo della cultura senza laurea: fidatevi di me quando vi dico che è una gran fatica.
Non nego che il liceo classico sia sicuramente più duro, sotto molti aspetti, dell’istituto tecnico che ho frequentato, e non lo nego perché la scelta di non frequentarlo è scaturita anche dalla mole di lavoro che non sarei stata in grado di sostenere.
Ho iniziato le scuole superiori nel periodo della mia vita in cui, per 6 ore al giorno, mi allenavo. Tutti i giorni. In un periodo storico (fine anni ‘90-inizio 2000) e in un contesto (la provincia) in cui ancora non si parlava minimamente di “dual-career”, in cui non ho avuto supporto da prof e dal sistema scolastico in generale. Partivo da Guidonia da sola col bus, poi prendevo la metro, poi il treno. Passavo 4 ore tra piscina, pista ciclabile, palestra e pista di atletica. Tornavo a casa per l’ora di cena, mandavo giù un boccone e crollavo nel letto.
(Comunque, nella mia scuola di merda in provincia, ho studiato 3 lingue straniere. A 14 anni parlavo un inglese che le mie amiche “studiate” non parlavano. Per dire.)
Ci sono persone che hanno partecipato alle Olimpiadi e si sono laureate, persone che hanno frequentato il liceo mentre facevano la mia stessa vita, sì: hanno tutta la mia stima. Io non ci sono riuscita. Sticazzi.
Nella cittadina in cui sono cresciuta, Guidonia, non c’è un liceo classico. Il più vicino è a Tivoli, che è comunque a mezz’ora di treno e che mi avrebbe allontanata ancora di più dalla Roma che avrei dovuto raggiungere ogni pomeriggio. Gli altri sono direttamente a Roma, ma avrebbe significato svegliarsi alle 5 del mattino, un qualcosa che mi sembrava insostenibile, dato che poi avrei passato il pomeriggio ad allenarmi. Quando ho lasciato lo sport, ho preso in considerazione l’idea di trasferirmi al liceo classico perché volevo studiare la letteratura, la filosofia, perché mi dicevo che non sarei riuscita a frequentare la facoltà di lettere senza delle basi solide, ma non l’ho fatto perché ho pensato che ormai ero bollata come quella ignorante. E infatti, poi, la facoltà di lettere non sono riuscita a sostenerla, perché quelle basi effettivamente non le avevo. Perché i e le prof davano per scontato che io sapessi già tutto, perché se ti iscrivi a lettere ovviamente hai frequentato il liceo, dai. Anche questo è classismo.
Guidonia non è di certo l’unico luogo in cui non ci sono determinati istituti con determinati indirizzi scolastici: succede in moltissime periferie. Quando il politico liberale di turno si lancia in discorsi in difesa del liceo, non considera questo aspetto, perché ovviamente in periferia non ci ha mai messo manco la punta del piede destro. Se in periferia determinate scuole non ci sono è perché si pensa che a chi vive lì non interessi studiare. Non interessi la cultura. Non è chi ci vive a sceglierlo, è la società a scegliere per loro. Il “dato di fatto” che tanto ci tenete a condividere è reale, così come lo sono le statistiche, ma non parlare delle motivazioni dietro queste scelte continua a escludere una buona parte di popolazione che resta lì, convinta di valere meno.
Nella mia scuola superiore è crollato il tetto della palestra qualche giorno prima che iniziassi il primo anno. Fortunatamente è successo in un periodo in cui non c’era nessuno al suo interno. Ho passato cinque anni in quella scuola, e la palestra è rimasta così, e ci è rimasta per molti anni a seguire. La mia scuola è stata costruita su un terreno paludoso, e a nessuno è mai fregato un cazzo. Parliamo allora anche della situazione dei luoghi dell’istruzione, di COME gli studenti e le studentesse devono studiare in determinati luoghi, di quanto ti facciano passare la voglia.
Per buona parte dei miei vent’anni, ho cercato di poter risultare presentabile come intellettuale: la mia scrittura era infarcita di termini alti, di avverbi inutili. Non toccavo quasi mai argomenti considerati “frivoli”. Ho mentito sulla mia provenienza e sul lavoro dei miei genitori.
Se cresci a Guidonia, da genitori con la terza media che sono agenti di polizia penitenziaria, è difficile immaginarti intellettuale. Questa è la radice di un pensiero classista che ci hanno messo addosso contro la nostra volontà. Non è un qualcosa che scegli tu, semplicemente non ti sembra possibile. Non scegli di nascere e crescere in un determinato luogo o contesto, ma ti accorgi da subito che non c’è posto per te in alcuni ambiti.
Avendo sempre voluto fare una professione che avesse a che fare con la scrittura - non tanto per posizionamento quanto perché mi sembrava una delle poche cose che fossi in grado di fare, insieme al nuotare e al mettermi lo smalto senza sbavare mai - l’appartenenza a una certa classe intellettuale mi sembrava necessaria.
Ci ho provato in tutti i modi: all’inizio era il modo di scrivere che ho già citato, poi ci ho provato col femminismo social: negli anni in cui con le tematiche femministe non ci si guadagnavano 30.000 euro a post brandizzato su Instagram o contratti con editori giganti da - appunto - intellettuali, ho cercato di pormi in un certo modo e di avvicinarmi il più possibile a certe persone.
Negli ultimi anni, invece, ho iniziato a vivere la mia vita sui social come Secco delle serie di Zerocalcare (con buona pace di chi mi dice che copio la sua parlata nei video: raga’ è la parlata de Roma est, ho vissuto i primi anni di vita anche tra Rebibbia e Ponte Mammolo): a me non me frega ‘ncazzo, voglio solo anna’ a pija’ er gelato. Non mi importa di avere sempre l’opinione pronta sull’argomento del giorno, tratto il mio profilo Instagram come una discarica dove butto qualunque idea mi passi per la testa, curo il minimo indispensabile la parte grafica e giro video con un iPhone 13 che come tutti gli iPhone dopo due anni inizia a fare i video con la stessa qualità di una macchinetta digitale di quando frequentavo la terza media.
Non ho una bio ottimizzata, non si capisce bene di cosa io parli o cosa io faccia nella vita. Nelle stories e nei video parlo spesso romanaccio e non mi trucco per stare in casa. E soprattutto: ho ripreso in mano le mie origini e la mia provenienza. Le rivendico, quotidianamente.
Studiare costa: i libri, l’iscrizione, il cibo, i mezzi di trasporto, l’affitto. Il classismo culturale è quanto di più assurdo possa esistere: la cultura è di tutti e di tutte ed è uno strumento potente per affrontare la vita, e chi non si trova in una situazione di privilegio è proprio la persona che ha più bisogno di questi strumenti. Se la cultura diventa un’arma elitaria ed escludente, perde totalmente il senso di esistere.
Il linguaggio definito “acculturatoù2 o intellettuale in primis è classista ed elitario: se parli con paroloni o con inglesismi inutili, la maggior parte delle persone le stai escludendo. Non capiranno quello che dici e non ti ascolteranno. Non sono contro gli inglesismi in generale e non ho nell’armadio una felpa tricolore che indosso per difendere a spada tratta l’italianità mentre commento il reel delle fettuccine Alfredo, ne uso parecchi, a volte troppi. Se hai un accento, se ti scappa qualcosa in dialetto, sei fuori.
Cosa voglia dire, poi, “intellettuale”, io ancora mica l’ho capito,
La definizione di Wikipedia è la seguente:
“una persona dedita al pensiero critico, alla ricerca e alla riflessione sulla natura della realtà, in particolare sulla natura della società e sulle possibili soluzioni ai problemi legati alle norme sociali. Proveniente dal mondo della cultura, sia come creatore che come mediatore, l'intellettuale partecipa alla sfera politica, sia per difendere proposte concrete sia per denunciare un'ingiustizia, spesso rapportandosi ad un'ideologia, sia per difenderla o per criticarla o rifiutarla, e aderendo o meno ad un sistema di valori o ad un ideale."
Se davvero fosse questo il significato che gli diamo, allora io non solo sono un’intellettuale oggi, ma lo sono sempre stata.
L’idea che si ha di una persona “poco istruita”, una persona che quindi non ha raggiunto risultati accademici importanti, è ancora questa. Lo pensano ancora troppe persone, anche insospettabili. Avere una laurea ti rende automaticamente più intelligente.
Se sei intellettuale o meno, adesso, non lo decide chi ti legge o chi ti ascolta, ma chi già ha raggiunto quello status e ti include nel suo circoletto. Il circoletto è tenuto insieme dall’amichettismo, è molto semplice comprendere cosa significhi: guardate chi pubblica i libri e con quale editore, chi si presenta quegli stessi libri a vicenda, chi partecipa ai Festival, chi va ospite nei programmi della finta sinistra condotti da maschi bianchi boomer. Chi si accaparra la Sala Oval del Salone del Libro (con amichetto/a con x followers che porta gente, altrimenti ci sarebbero 20 persone, come a ogni altra presentazione), chi presenta i podcast di certo non autoprodotti ma con dietro casa di produzione x, chi ha le rubriche da intellettuali sui giornali da intellettuali.
Raggiungere lo status di intellettuale doc, oggi, vuol dire fare i soldi: ecco perché io non lo sono.
Un aspetto da non tralasciare, infine, è quello generazionale: la mia generazione, quella delle persone millennial (anche quelle precedenti, ma mi piace parlare di quello che ho vissuto sulla mia pelle) ha frequentato le scuole in un periodo in cui le neurodivergenze e i Disturbi Specifici dell’Apprendimento non venivano minimamente presi in considerazione, quindi figuriamoci diagnosticati. Mi sono diplomata in tempo, con voti ottimi, senza mai aver preso un debito in 5 anni. Per i primi tre anni delle scuole superiori sono stata una studentessa-atleta. Per me, io di lauree ne ho prese due, perché la fatica che ho fatto (e che hanno fatto tutte le persone come me) non la riesco a quantificare (anche perché sono discalculica.)
Cosa ci dicono, quindi, queste utilissime statistiche? Che nelle grandi città ci sono più persone laureate. E grazie al cazzo. Che c’è un livello diverso di istruzione molto diverso tra le città e le periferie o le zone rurali, ma non servono delle statistiche per capirlo, quindi mi domando: a cosa servono queste statistiche? A chi servono? Non servono solo a chi fa parte della categoria menzionata per sentirsi più figa? Più intelligente?
Non sappiamo perché le persone non studiano e non si laureano e non si diplomano. E qualunque sia la motivazione: va bene lo stesso.
Se la cultura e l’istruzione non arrivano a determinate persone e in determinati luoghi, la colpa è di chi queste materie lì non ce le porta. Se queste statistiche che tanto ci piace condividere per far vedere che siamo superiori non servono a cambiare la situazione, a occuparsi di chi ha meno privilegi e non servono ad ampliare l’accesso alla cultura, ve state a di’ bravə tra di voi.
La cultura è importante, non direi mai il contrario, ma distribuirla spetta a chi già ce l’ha.
Si studia avendo il privilegio di avere accesso alla cultura. Portate ‘sta cazzo di cultura nelle periferie, oppure continuate a farvi i complimenti da solə. E toglietevi ‘sta cazzo di spocchia, rega’. È una laurea, non un premio Nobel.
(P.s: ci terrei, tra l’altro, a farvi presente che la questione del merito era tanto cara ai fascisti e oggi è tanto cara ai liberali Calendiani. Ma questa è un’altra storia.)
Sottolineerei che il burnout lo curi se te lo puoi permettere, ho visto tantissime persone mollare gli studi dopo carriere eccellenti e non ricevere il minimo sostegno psicologico.
Io sono tra queste, ho perso due amici nel giro di una settimana durante la sessione estiva, ho saltato tanti esami e non riuscivo a riprendere, ho tirato avanti a fatica, ma quando mi sono ritrovata a dover affrontare nel 2020 la prima retta da fuoricorso all’alba di una pandemia ho mollato tutto con soli cinque esami da sostenere.
Condivido pienamente tutto, anche perche' in alcuni punti mi sembra di leggere la mia storia. Si sta svuotando di senso tutto - questo per me e' il vero problema - per cui chi riesce a raggiungere l'obiettivo "laurea" non ha alcun interesse a metterla "al servizio" della societa' (anche perche' sono dottori anche dopo la triennale) o a farci qualcosa che li faccia sentire appagati dopo tutti quegli anni chini sui libri, se poi poi davvero ci stanno chini visto che con chatgpt ormai si fanno esami in scioltezza. Siamo alla deriva in questo medioevo tecnologicamente evoluto, dove nessuno vuole piu' faticare che sia per lavoro o per studio, e tutto questo si riflette nell'abissale ignoranza di quel 70% che non si e' neppure scomodato per andare ad esprimere un diritto, non un'opinione, un d i r i t t o. Spero che la cultura torni, prima o poi, ad illuminare le menti, con o senza laurea.