(Qui c’è la versione audio)
Uno degli ultimi acquisti che ho fatto nel 2022 è stato un paio di calze leopardate. Calze nel senso di collant, non so come le chiamiate voi, io di base non le chiamo proprio perché le indosso tre volte l’anno. Avevo le stesse identiche calze nel 2005. Avevo 16 anni, vivevo a Guidonia ma con la mente vivevo a Londra. Portavo sempre delle enormi cuffie da dj in testa, dall’altro capo del filo c’era attaccato prima un lettore cd di quelli che facevano zompare la traccia a ogni minimo movimento del corpo - e chi ha mai preso un autobus in provincia può capire la sensazione di smadonnamento del metterci venti minuti per ascoltare una traccia lunga tre - e poi prima un lettore mp3 e dopo, finalmente, un ipod classic, comprato con i soldi che lo Stato italiano mi ha corrisposto quando sono rimasta orfana. Eccomi, sono io: la regina del trasformare i limoni in limonata.
Mi tingevo i capelli di colori improbabili con le tinte spray o quella cagata a mousse della L’Oreal che faceva sempre uscire i capelli viola, qualunque colore tu provassi. Mi fiondavo in un universo musicale parallelo un po’ perché avevo già capito che il maschio medio ti deve per forza rompere i coglioni quando sei in giro da sola, quindi cercavo di schermarmi dal mondo - anche se comunque si tiravano il cazzo di fuori sul Cotral, ma questa è un’altra storia - e un po’ perché avevo la costante necessità di crearmi un mondo diverso da quello che vivevo quotidianamente.
Ho vissuto l’adolescenza prima e i miei 20 anni poi in maniera sconsiderata e sofferente, non trovo altri aggettivi. Non per fare sempre quella “punk prima di te”, ma perché camminavo in equilibrio su un filo sottilissimo che oscillava tra la depressione e l’esaurimento nervoso. Dico sempre che è per questo che a quasi 34 anni ancora faccio finta di averne 10 di meno: perché ho intenzione di riprendermi tutto il tempo che non ho vissuto come volevo.
Pensavo che il rock and roll fosse farsi 15 shot di vodka alla menta, fare un pompino nel bagno a un tipo x con le occhiaie conosciuto in un locale pieno di stronzi mentre un dj incapace pensava di essere l’unico al mondo a conoscere i Rapture e provare droghe allucinogene perché sono sì una persona ansiosa, ma la paura di morire è l’unica che non mi ha mai assalita.
Scopare mi sembrava un po’ too much. A parte che i maschi mi sembravano tutti noiosi, impertinenti e con un’igiene personale scarsa, il rapporto disastroso col mio corpo non mi permetteva di farmi vedere nuda con molta facilità. Guardati oggi, piccola Denise del 2006: le tue zinne su instagram le hanno viste pure a Bangalore. Ne hai fatta di strada.
Non parlo mai molto di mia madre perché non c’è molto da dire, non abbiamo mai avuto una conversazione più lunga di 15 minuti, dei quali più della metà passati a urlare e a mandarci a fanculo. Nella mia vita parallela da cuffie-da-dj-sempre-in-testa e viaggi nel deep web per scovare musica che sinceramente ancora oggi non ho mai capito come cazzo facessi a trovarla, riuscivo a trovare la serenità. Ma se mia madre non mi avesse trattata come un ectoplasma capitato per caso tra le mura di casa sua per dover scontare non so quale pena del passato, oggi probabilmente non farei il lavoro che faccio e non esisterebbe questa newsletter che straborda di competenze musicali. (Sono ironica sulle competenze musicali. O forse no.)
Mio padre, invece, era ossessionato dal suono. Non avevamo un euro manco per piangere, lui faceva un lavoro di giorno e uno di notte e io mi arrangiavo tra il farmi prendere per il culo dai ricchi della Roma bene ai quali pulivo le lussuose piscine condominiali (potrei averci buttato dentro del piscio più volte ma facciamo che non l’ho mai detto) e controllavo che non affogassero (potrei aver sperato più volte che accadesse ma facciamo che non ho mai detto nemmeno questo), spillare birre malissimo, dare ripetizioni a ragazzini rincoglioniti e scrivere articoli sgrammaticati. Ma l’impianto stereo doveva essere coi controcazzi, non poteva esistere altro modo per ascoltare la musica. Le casse erano alte quanto me e i bassi spingevano come spingevo io per finire in prima fila ai concerti e beccarmi in faccia gli sputi del cantante x di turno. Provava a farmi ascoltare il jazz di Pat Metheny, il rock sperimentale dei Genesis e la poesia di Fabrizio De André. Mi piaceva tutto quello che sparava a volumi da rave da quelle casse (ciao, vicini di casa del tempo, mi dispiace per voi ma vivere di fianco a un* D’Angelilli comporta questo ancora oggi) ma mi piaceva di più “la merda” - come la chiamava lui - che ascoltavo io. Adesso che sono ormai adulta, mi rendo conto di essere sempre più simile a lui. Quando mi incazzo su instagram perché una diciottenne mi ha chiesto chi siano i Blur, sono esattamente come lui quando mi faceva trovare sulla scrivania Brand New Day di Sting.
Ormai lo sapete chi è morto dei due, quindi non chiedetemi mai più perché odio così tanto la vita.
Quando ho scoperto il mondo dell’indie rock degli anni 2000 - grazie a Myspace, al programma Our Noise su MTV e alle spedizioni del sabato pomeriggio alle Messaggerie Musicali di via del Corso - ero una emo punk-rocker con la stessa quantità di matita nera sugli occhi che oggi potrei usare per truccare tutto il mio quartiere. Nel momento esatto in cui mi ero convinta di aver trovato una mia identità, ho sentito nascere un’altra persona. Dalle vans a scacchi sono passata al cappello a bombetta, perché lo indossava Pete Doherty. Non stava bene a lui, che era il più figo del mondo, figuriamoci a me.
Non so come sia possibile che io non conoscessi Meet Me In The Bathroom, il libro di Lizzy Goodman sulla scena indie newyorkese degli anni 2000.
Lo scorso novembre è uscito il documentario (purtroppo da noi non è stato distribuito, lo trovate su internet, if you know what i mean.) L’ho guardato due volte, per assorbire meglio tutte le informazioni e anche perché piangere è la mia attività sportiva preferita.
Una voce fuori campo recita “The Strokes launched a fireball” e io l’ho presa in piena faccia. Ho proprio sentito la puzza di pollo che ti invade le narici quando ti bruci i peletti del dito della mano con la teglia bollente del forno.
Una volta il tipo del quale ero follemente innamorata fino all’anno scorso mi definì “una che sguazza nell’indie del 2008”. Avrei voluto mettere questa frase come bio ovunque, ma non volevo dargli la soddisfazione. Qualche tempo dopo mi ha detto che ‘sto revival ha rotto i coglioni. Aveva ragione, di nuovo, ma anche quella volta non potevo ammetterlo. Qualcuno potrebbe dire che è una persona un po’ contraddittoria, non sarò io a dire il contrario, ma non è di lui che parleremo.
Per tutta la mia adolescenza sono stata fermamente convinta che sarei diventata una rock star o una giornalista di musica. Ho provato a suonare la chitarra, ma sono una pippa. Ho provato a suonare la batteria, ma sono una pippa. Ho provato a cantare, ma sono una pippa. Realizzare che la musica avrei potuto solo ascoltarla e al massimo raccontarla e non crearla mi ha fatta sentire come quando vado in un negozio di scarpe e il numero più grande del modello che mi piace è il 40. E io porto il 42.
Il 22 luglio del 2012 ho perso mio padre, l’esperienza più straziante della mia vita. Un mese dopo, in una piovosa giornata di agosto, ho preso un treno da sola per Verona, poi uno per Villafranca di Verona e sono andata a sentire i The Killers. Ho dormito sulla panchina del binario 1 della stazione di Verona, fatto l’autostop da Villafranca per arrivare in città, pisciato tra due macchine parcheggiate nel piazzale della stazione e infangato totalmente il treno. Quello è stato il momento in cui ho realizzato che sarei per sempre stata quella persona. Ho capito che non avevo scampo: quel lettore cd che zompava a ogni passo non se n’è mai andato.
E adesso un po’ di considerazioni sparse sul documentario, che spero vi faccia venire la voglia di guardarlo:
per un lungo periodo della mia vita, prima di capire che non posso definirmi totalmente atea perché considero Mark Ronson una divinità mandata sulla Terra per allietarci la vita, ero convinta che lui e Adam Green fossero la stessa persona.
Julian Casablancas non era il mio preferito degli Strokes. Mentre tutte si strappavano i capelli per lui, io sognavo Albert Hammond Jr.
ero convinta che gli Strokes fossero inglesi. Era il periodo in cui ho scoperto gli Arctic Monkeys e per me il centro del mondo era l’Inghilterra.
quando è uscito il primo disco degli LCD Soundsystem, James Murphy aveva 35 anni. Alla faccia di chi ci dice che a 30 anni siamo vecchi*.
capisco che questa possa essere una notizia incredibile, visto che non succede in nessun altro ambiente, ma essere una donna che fa musica è una merda. Vedere Karen O degli Yeah Yeah Yeahs raccontare che i fotografi, durante i live, cercavano sempre di scattare foto sotto la sua gonna mi ha fatta incazzare, ma non mi ha stupita.
nonostante questi ostacoli horror, Karen O è diventata Karen O. Nel docu esclama “I felt like a pioneer” e sì, Karen, lo sei stata.
giusto per farvi capire che periodo incredibile fosse a New York: il primo show live degli Yeah Yeah Yeahs è stato in apertura ai White Stripes.
sì, sono ossessionata dagli Yeah Yeah Yeahs
chissà se quei dj di merda che nominavo prima sanno che i Rapture li ha scoperti James Murphy degli LCD, che li ha prodotti con la sua etichetta, la DFA, dando inizio a un genere nuovo, l’electro-punk
Sono rimasta la stessa identica ragazzina con le calze leopardate e i grandi sogni, anche se sono passati vent’anni. Ma ho trasformato - non senza molti drammi e molti antidepressivi - la fuga dalla realtà nella mia realtà. Non uso più la musica come momento di evasione, adesso posso godermela coi bassi che pompano, come faceva il mio papà.
Sono finalmente viva, libera, serena. Forse un po’ troppo nostalgica, ma non mi dispiace affatto.
Questo è quello che sono, e questo è quello che sarò per sempre.
Stay strong.
Stay rock and roll.
D.
p.s: La playlist stavolta non l’ho fatta io, rubo questa creata da indiesleaze proprio per Meet In The Bathroom, perché è perfetta.